Sassolini, Matticoli, Torchia: “Verso l’inquieto mare notturno” a Carovilli – di Francesco Picca
“Sotto le stelle impassibili, sulla terra infinitamente deserta e misteriosa, dalla sua tenda l’uomo libero tendeva le braccia al cielo infinito non deturpato dall’ombra di Nessun Dio”.
La vertigine dei versi di Dino Campana, il vuoto degli spazi illimitati, taglia il respiro in una lunga caduta onirica attraverso il caldo pomeriggio di Carovilli, piccolo borgo dell’alto Molise. Il 20 agosto, nel giorno della nascita del Poeta di Marradi, la poesia e la musica si sono congiunte tra le mura della chiesa del Carmelo, un rettangolo di pietra antica protetto da un tetto ligneo, brulicante di statue di angeli e di madonne. Uncontest irrituale, culla ideale sia per le delicate sonorità elaborate da Carmine Torchia, sia per le linee vocali magnetiche di Miro Sassolini. Nel mezzo si è adagiata l’accurata tessitura testuale di Monica Matticoli, in perfetto equilibrio con il senso profondo della poetica di Campana. Ho seguito questi tre artisti nella due giorni di preparazione allo spettacolo. Ho ritrovato la cura del dettaglio di Sassolini, un perfezionista irrequieto e rigoroso; ho subìto, come tutti, l’euforia schietta e dirompente di Monica Matticoli, la sua inconsapevole ed infallibile ricetta per alleggerire anche i lavori più impegnativi; ho apprezzato la mitezza artistica diTorchia, la sua silenziosa discrezione, il suo restare a disposizione del gruppo e dell’intero progetto in ogni istante, tanto nei check quanto nelle pause. Lo spettacolo ha appassionato tutti i presenti annullando le trasversalità anagrafiche. La danza metrica di Monica ha accarezzato, abbracciato, coinvolto, irrimediabilmente contaminato tutte le sensibilità presenti, anche le più scettiche. La timbrica diSassolini ha steso veli sonori impalpabili, come fossero fasci luminosi tenui e lontani, talvolta persino cantando in ginocchio, salvo poi liberarsi in poderosi lampi canoricon cui ha inchiodato le sillabe più aspre sulle pareti del piccolo tempio. Torchia ha cesellato le note attorno ai testi, con dedizione, con un lavoro minuzioso e sobrio, srotolando morbidi tappeti sonori e intrecciando le vibrazioni della sei corde con le sofisticate trame poetiche. A margine dello spettacolo, permeato di grande eleganza e di sorprendente qualità artistica, abbiamo raccolto le impressioni dei protagonisti.
Miro Sassolini, come si articola il tuo approccio ai testi di Campana?
“Campana è molto musicale, quindi l’approccio è per me del tutto naturale. La scelta dei testi di Campana fatta da Monica è stata eccezionale, pertanto è stato molto semplice trovare con Carmine un feeling immediato, fondamentale per un lavoro come questo che, nel complesso, è molto delicato. Cantare Campana è semplice; lui stesso amava declamare i propri versi perché sapeva quanto fossero musicali. Abbiamo unicamente seguito le istruzioni di Dino Campana: conoscerlo, amarlo e riproporlo in una dimensione contemporanea, trattandolo però in maniera delicata, utilizzando strumenti e tecniche sonore che possano esaltare la qualità musicale della sua arte poetica”.
Ieri sera, al termine delle prove, qui, sul sagrato della chiesa, abbiamo chiacchierato sul malessere del Campana “uomo” e su quello di questa nostra società in grave affanno rispetto a se stessa. Vogliamo tornare sull’argomento?
“Se ne parlo cosa cambia? Viviamo in uno stato che tiene in ostaggio un uomo che ha avuto soltanto la debolezza di dare una mano ad altri uomini. Se aiutare il prossimo è una debolezza, allora io mi dissocio da tutto e potrei anche smettere di fare l’artista”.
Monica, ascoltando i testi di Campana ho notato la ricorrenza di due parole… “deserto” e “infinito”.
“Non ho mai fatto un’indagine sul lessico di Campana ma la tua domanda mi spinge ad una riflessione. La poesia ha a mio parere questa grande bellezza: è fatta per risuonare. Scrivere in versi non significa semplicemente andare a capo: occorre stare dentro a una serie di maglie di tipo sonoro, metrico e ritmico. Tutto questo contribuisce a costruire l’immagine: quella zona, quell’altro (Altro?) che c’è oltre e dentro il testo e che viene strutturato mediante una strategia linguistica che permette di comunicare non solo significati ma sensi. La poesia ha un grado di complessità molto elevato e le parole sono scelte e organizzate tra loro per costruire qualcosa. La scelta dei testi che ho fatto come autrice del concept, tessuti attorno all’idea del mare, che insieme all’amore è il tema conduttore di questo viaggio, non prescinde dalla mia ricerca personale: sono le immagini di Campana che entrano in risonanza con le mie. Il tema dell’assoluto ha reso molto bello proporre questo lavoro in una chiesa. In Campana percepisco una dimensione di corporea sacralità e in questo lo sento vicino alla mia ricerca. Vivo in un contesto profondamente cattolico, con dei richiami, dei simboli ed un linguaggio che rendono impossibile il definirmi atea in quanto mi è impossibile prescindere da qualcosa che attraversa la mia cultura. Poi, come persona, fai delle scelte, ti definisci, strutturi e destrutturi, conservando talvolta (questa è la mia esperienza) la sensazione di un qualcosa che vada davvero, come dire, oltre, e che definisco laicamente “ansia spirituale” o “ricerca del sacro” e che non riguarda la religione ma quell’ancestrale ritualità che attraversa la storia umana. Gli spazi infiniti e la dimensione aperta che sento in Campana rappresentano a mio parere una delle ossature della sua poesia, sia quando viaggia, sia quando semplicemente immagina il viaggio, e ancor più quando è recluso. Nel suo andare avanti, nel suo andare oltre, intravedo la capacità degli esseri umani di sperare, di resistere, di imparare ad essere differenti da ciò che si è.”.
La storia personale di Campana svela una perenne fuga dai luoghi e dalle persone; sembra quasi che, in cuor suo, sapesse di dover terminare la propria esistenza da recluso.
“Non saprei ma per quello che è il mio sentire la spazialità, l’apertura dei versi attraverso l’immagine dell’infinito, dei cieli stellati, del mare, del deserto, delle città, sono immagine onirica ma anche il reale: un poeta della levatura di Campana ha a mio parere sapientemente maneggiato il linguaggio che aveva a disposizione, anche quello diciamo “di rottura” del primo Novecento, per narrare una storia non solo personale ma collettiva, un disagio dell’essere nel mondo, lo spodestamento di sé che sta nel tempo che immediatamente precede una sanguinosissima guerra – come sempre fa l’arte quando è autentica. Non condivido l’idea che si produca una buona scrittura nei momenti di sofferenza: Campana, ad esempio, per quel che ne so, ha smesso di scrivere dopo la reclusione definitiva in manicomio. Io credo che scrivere risponda ad un bisogno di comunicare. Di recente mi hanno chiesto perché non facciamo un lavoro sulla follia, aggiungendo alla nostra ricerca Alda Merini. Personalmente non amo Merini e quello che sto per dire è un’opinione dovuta anche ad una superficiale lettura dei suoi testi, di cui non amo la facilità sloganistica. Le riconosco in ogni caso l’indubbio pregio di riuscire a parlare a tantissima gente. Il suo mi sembra piuttosto il risultato di un percorso di analisi che implica lo svelamento del corpo, dell’intimità. A mio parere, l’unica cosa che deve svelare un poeta è la parola, il suo “doppio inganno”.”.
Questo spettacolo è in piedi ormai da un anno. E’ in evoluzione?
“Si, ho selezionato altri testi da inserire. Ci stiamo lavorando e ci piacerebbe anche produrlo. Le voci le abbiamo registrate e le basi ci sono: occorre solo mixarle. Poi, però, bisogna trovare anche un’etichetta e lavorare sul tipo di destinazione da dargli nella produzione fisica. Potrebbe rimanere un semplice spettacolo, esattamente così come è nato. Ci piacerebbe proporlo più spesso, magari registrando più live per poi montare un video. Ma poi, inesorabilmente, arriviamo al dunque: ci sono cose molto belle in Italia ma mancano gli investimenti.”.
Carmine, come ti sei affiancato a questo progetto?
“Ho conosciuto Miro e Monica in occasione della presentazione fiorentina del loro ultimo disco, “Del mare la distanza”. Ci siamo piaciuti ed è nata un’amicizia. Un giorno mi hanno proposto di scrivere qualcosa insieme. Sono nate dapprima due canzoni e poi tutto il concept su Dino Campana“.
Cosa ti ha ispirato in particolare della poesia di Campana rispetto alle scelte sonore che poi hai realizzato?
“Campana lo avevo già letto anni prima: i “Canti orfici” mi erano apparsi come una raccolta che tocca altezze poetiche notevoli. La lettura mi aveva molto suggestionato.Miro e Monica sono venuti a trovarmi sottoponendomi un’idea mediterranea del progetto. Da lì è nato tutto ciò che ruota attorno agli otto frammenti poetici“.
Quale tua esperienza musicale passata ti è tornata utile tecnicamente in questo progetto?
“Tutto ciò che ho ascoltato, scritto e suonato in precedenza. Arrivando dal rock ho utilizzato i suoni propri del genere, ma facendo attenzione al fatto che i versi avrebbero dovuto fluttuare. Come autore di canzoni avevo già una confidenza col maneggiare versi, inoltre avevo già fatto lavori di messa in musica su poeti del Novecento. “Verso l’inquieto mare notturno” è un lavoro basico, con pochi fronzoli: un pianoforte, una chitarra elettrica, qualche synth, un basso, una batteria e tanto cuore”.
Quali difficoltà compositive implica la partitura per un testo poetico?
“La poesia ha una musicalità intrinseca che non ha quasi bisogno di altro, tantomeno di sovrastrutture che la ingabbino; il verso poetico, specie quello di Campana, è libero, e tale deve rimanere. Il mio lavoro è stato pertanto quello di tracciare le melodie; le armonie, invece, sono emerse come elementi di risulta, funzionali al disegno melodico su cui viaggiano le parole di Campana“.
Avete dimostrato che la musica può essere un modo per avvicinare alla poesia. Può diventare un genere?
“Se l’arte è la forma più alta della comunicazione, la forma più alta dell’arte è lapoesia. Mi sembra che tutte le arti le siano figlie. Da fruitore, prima ancora che da artigiano, mi avvicino ai diversi linguaggi come se quello che sto per vedere o per ascoltare possa impressionarmi ferocemente. Sulla nascita di un genere non saprei dire; siamo dei creativi, mossi più da istinti che da categorie d’azione. L’interpretazione di Miro è stata fondamentale perché la sua voce è un dono e, ascoltare le melodie che ho scritto sospinte da voci così rare, è stata una fortuna. Monica ha selezionato le poesie fino a definire una struttura consequenziale e dinamica e, interpretando alcuni versi in scena, crea una dualità molto interessante con la parola cantata. Quanto alla risultante finale, abbiamo trasformato la poesia in un flusso, come quello continuo e febbrile del Poeta di Marradi“.
Foto Gianni Caldararo©tutti i diritti riservati
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